La religione di Confucio non è una fede che dipende da una “rivelazione”, ma è piuttosto una filosofia esistenziale: non ci sono dogmi né clero (nel senso di una casta sacerdotale professionale, poiché l’esecuzione dei riti era generalmente affidata a funzionari statali e capifamiglia). Essere virtuoso, per Confucio, significa avere autocontrollo, moderazione e saper agire con giustizia, a imitazione degli antichi, che non avevano leggi esteriori costrittive e che consideravano l’amore per il prossimo non un semplice dovere ma un’esigenza vitale.
Prima di ricercare dio (che coincide col “cielo”), l’uomo deve conseguire questi prerequisiti umani attraverso l’educazione e l’autoeducazione. A chi gli chiedeva di parlargli dell’aldilà, Confucio rispondeva: “Non abbiamo ancora imparato a conoscere la vita, come potremo conoscere la morte?”.
In queste parole si riassume l’atteggiamento non solo dei confuciani, ma anche dei cinesi di fronte a quei problemi, che ogni chiesa o confessione considera tipici della personalità religiosa. I cinesi hanno più interesse per la vita pratica che non per il futuro dell’anima. L’idea di dio per loro equivale a quella di natura e nella storia religiosa della Cina non vi sono mai stati grandi apostoli, martiri o redentori. Anche i capi religiosi furono pochissimi. Confucio, ad es., non era una figura monastica: amava suonare il liuto, cantare in coro, andare a caccia e a pesca. D’altra parte nessun cinese si è mai sentito esclusivamente confuciano, buddista o taoista.
Tutte e tre le religioni, infatti, insegnano che l’uomo, all’origine, è buono e che può raggiungere la salvezza attraverso la conoscenza della natura umana. Il primo ambito sociale in cui l’uomo impara ad essere autentico, secondo Confucio, è la famiglia. Il figlio apprende la pietà filiale: deve al padre rispetto e sostegno nella vecchiaia, mentre il padre gli assicura protezione e lo aiuta a formarsi. Il secondo ambito è la società civile, ove si apprendono e si applicano la giustizia, l’altruismo, la compassione e soprattutto la benevolenza (che sta alla base di tutte le virtù).
Il terzo livello è quello dello Stato, ove i sudditi (specie i funzionari statali) sono tenuti alla lealtà-fedeltà, a condizione naturalmente che il sovrano governi con virtù e non con lassismo e corruzione o tramite la rigorosa applicazione delle leggi. Confucio era favorevole ad una monarchia patriarcale, feudale e gerarchica. In pratica i confuciani concepivano lo Stato come una gran famiglia al cui vertice stava il re (“mandato dal cielo”), mentre più in basso tutti osservavano i diritti-doveri della loro condizione sociale, secondo un codice prestabilito che regola i rapporti tra signore e vassallo, tra padre e figlio, tra il primogenito e gli altri fratelli, tra marito e moglie, tra amici e compagni.
I due concetti-chiave del Confucianesimo sono il rito e la benevolenza: entrambi presuppongono il retto agire e il buon governo. I “riti” sono la forma dell’agire, la “benevolenza” ne è il contenuto. Il rito dipende dalla benevolenza: senza di questa diventa formale, vuoto, falso. Il rito più importante è il culto degli antenati, che è in verità la fonte di tutte le religioni cinesi. Questo culto fu introdotto all’inizio della dinastia Chou (1122-256 a.C.) e Confucio non fece altro che divulgarlo. Ai suoi tempi gli antenati non erano più divinizzati, ma semplicemente venerati.
Il culto era eseguito dai capifamiglia (o dai capi-clan). A fondamento del culto sta la pietà filiale prolungata oltre la morte. Il fine è quello di mantenere viva la coscienza di appartenere ad un gruppo più vasto di quello che si vive sulla terra. Ogni famiglia aveva un proprio tempio (ciascun gruppo familiare uno per il capostipite, e così via, sino agli antenati dell’imperatore). Al suo interno vi erano delle tavolette geroglificate, conservate in piccole teche: ognuna di esse rappresentava un antenato. Le cerimonie erano compiute in momenti particolari (nascita, morte, matrimonio, ecc.), oppure quando si doveva chiedere consiglio-assistenza per poter prendere importanti decisioni.
A Confucio non interessava tanto il rapporto degli uomini con le anime di questi defunti (non esiste nel canone una “teologia dell’aldilà”), quanto il fatto che in tal modo l’unità della famiglia (e quindi della nazione) restava salvaguardato. Il rito doveva servire per tenere unita la famiglia, la società e lo Stato: doveva insomma dare agli uomini il senso di appartenere a una collettività molto vasta, forte e compatta, insegnando loro le virtù. Per i confuciani, una persona quando muore ha l’anima che si separa in tre parti: una sale in cielo, la seconda rimane nella tomba per ricevere sacrifici e offerte di cibo, la terza viene localizzata nella tavoletta del tempio
Quest’anima può trasformarsi in uno spirito buono o cattivo: la sua sorte è decisa dal suo passato e dalla sollecitudine con cui i parenti ne onorano la memoria. Quindi più sontuose sono le cerimonie funebri e i riti commemorativi e più aumentano le probabilità che egli divenga uno spirito buono e di conseguenza benefico per i vivi. Sul piano dei valori il concetto fondamentale promosso da Confucio è quello di benevolenza, paragonabile al concetto di “amore”. La famosa massima evangelica “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te” era stata detta da Confucio cinque secoli prima.
Né gli era sconosciuto il concetto di “amore universale” (il principio è: “considera tutti come fratelli”) e di giusto mezzo (secondo cui per cercare di realizzare un ideale bisogna scendere a leciti compromessi). Benché sia stato a lungo l’ideologia ufficiale dello stato cinese, il confucianesimo non fu mai una religione istituzionalizzata con una chiesa e un clero. Gli eruditi cinesi onorarono Confucio come un grande maestro e un saggio ma non lo venerarono mai come una divinità personale, benché gli occidentali abbiano identificato a lungo questa venerazione con quel culto degli antenati che è parte integrante della religione cinese.